Aflatossine nel latte

Redazione |
19 Gen, 2022 |

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di Saverio Santi

Gli effetti delle aflatossine sulla nostra salute possono essere anche molto gravi. Cosa sono? Come possiamo evitarli? Cosa si può fare per diminuire o evitare la loro presenza nella filiera del latte, per avere sulle nostre tavole prodotti caseari più sani? Qualche soluzione esiste.

La filiera del latte subisce ogni giorno una serie di controlli molto accurati in ogni fase di produzione, dai mangimi e foraggi con cui sono nutrite le vacche, fino all’imbottigliamento e alla trasformazione in formaggi e latticini. Le aflatossine sono micotossine piuttosto importanti per diffusione e tossicità. Sono tossine prodotte da funghi appartenenti alla classe degli Ascomiceti, genere Aspergillus, in particolare Aspergillus flavus e Aspergillus parasiticus.

Come è noto, la campagna mais 2015 è stata caratterizzata da numerosi episodi di contaminazione da aflatossine nel latte delle nostre aziende. Questo ha portato alla definizione di un Piano Straordinario di Gestione del problema che ha comportato negli anni successivi le visite ispettive da parte di ASL e NAS di tutte le aziende agricole per la verifica della corretta applicazione dei piani di autocontrollo. Il Piano prevede che tutti gli allevatori devono essere in grado di dimostrare e ricostruire che cosa hanno fatto relativamente all’utilizzo di mais e derivati nella razione delle bovine, con lo scopo di eseguire l’Autocontrollo dell’Aflatossina B1 (AFB1) negli alimenti bovini e l’Autocontrollo dell’Aflatossina M1 (AFM1) nel latte. L’AFB1 è fluorescente con colore blu (B), mentre l’aflatossina M1, è il prodotto di idrossilazione metabolica dell’AFM1. La lettera M sta ad indicare l’iniziale del nome del prodotto alimentare dove viene ritrovata, cioè il latte (Milk).

Il Piano di Autocontrollo aziendale (Manuale scritto che tutti gli allevatori obbligatoriamente devono detenere in Azienda),

prescrive di conservare le analisi degli alimenti in uso nella razione giornaliera delle vacche da latte. Quindi, almeno una volta al mese bisogna analizzare il mais insilato, il pastone di mais, la farina di mais, tutti gli altri derivati del mais, cotone, mangimi e l’alimentazione unifeed (mangiatoia miscelatrice semovente) in modo da poter dimostrare la qualità degli alimenti introdotti nell’alimentazione delle bovine. Per quanto possibile, bisogna cercare di evitare l’utilizzo di alcuni prodotti a rischio (ad esempio cotone seme e farina di mais non controllata). Per tutti coloro che utilizzano la farina di mais, devono utilizzarla solo se conforme alla normativa vigente che, per le vacche da latte, prescrive un valore massimo 5 ppb di Aflatossina B1, con preferenza a valori inferiori a 3 ppb (CONAZOO, 2016).

Nel 2016, grazie a questo sistema di controllo, è stata scoperta la presenza di alcune tossine in certe partite di latte prodotto in Lombardia e Veneto e in generale nella Pianura Padana, con le quali si sarebbero dovute produrre delle forme di Grana Padano. Le aflatossine, sono un problema cronico della materia prima della pianura padana. L’estate del 2015 era stata una stagione molto calda, con elevati picchi di siccità, che portò a intensificare i controlli sul mais ed era stato contaminato da aflatossine, conseguente allo stress idrico causato dal forte caldo e alla siccità. Infatti queste tossine si sviluppa in condizioni di caldo costante, tra 25° e 32°C (ASSOLATTE, 2016).

È chiaro che le condizioni pedoclimatiche e la gestione degli allevamenti sono punti cruciali.

I cambiamenti climatici sono un problema emergente in tutto il mondo con effetti sull’ambiente e sulla sicurezza alimentare. In particolare, sul pericoloso aumento delle micotossine naturali, tra cui le aflatossine, grande preoccupazione a causa del loro impatto negativo sulla salute umana, sulla produttività degli animali e sul commercio internazionale. Gli effetti sulla nostra salute delle aflatossine sono molto gravi. Nei casi acuti può manifestarsi un’alterazione dell’integrità intestinale, che può portare a un ritardo nella crescita dei bambini o immunosoppressione.

Nell’adulto, un’assunzione di quantità elevate può causare emorragie, danni epatici gravi e persino la morte.

È noto che l’aflatossina BM1 presente nell’alimentazione animale può contaminare il latte e poi i formaggi. Un rischio alimentare con episodi, come abbiamo visto, avvenuti di recente ma che possono aumentare di frequenza e intensità con i cambiamenti climatici in atto.

Diffusione della contaminazione da micotossine*

                       

 

Secondo la stima da parte della FAO, il 25% delle colture alimentari mondiali sono contaminate da micotossine. Tuttavia, indagini sulla presenza di micotossine in tutto il mondo suggeriscono una maggiore incidenza. Ad esempio, il 72% dei circa 17.300 campioni di mangimi provenienti da diverse parti del mondo raccolti in otto anni conteneva micotossine (Streit et al. J. Sci. Food). Il mais e i derivati del mais sono le materie prime più contaminate e utilizzate nell’alimentazione zootecnica. Viene utilizzato nella preparazione dei mangimi in quote variabili dal 5 al 60% a seconda della specie animale.

Può essere aggiunto direttamente nelle razioni in allevamento, come granella intera o sottoposta a trattamenti fisici ottenendo così farine, fiocchi ed estrusi, oppure come insilato della pianta intera come il silomais. In Tabella 1, si può notare che i cereali diversi dal mais, come orzo e sorgo, e la farina di estrazione di soia, non presentano livelli elevati di aflatossina AFB1, come invece il mais (Bailoni et al. Atti del Convegno: Aflatossine nel Mais. Dall’Emergenza alla Prevenzione 2013).

Prevenzione e riduzione della contaminazione di alimenti e mangimi*

Uno dei documenti più completi riguardo il controllo della contaminazione delle aflatossine, soprattutto AFB1, nelle materie prime e nei mangimi, è la prima edizione del testo Prevention and Reduction of Food and Feed Contamination, stilato dalla Commissione Codex Alimentarius nel 2012. Questo documento presenta un paragrafo dettagliato sulla riduzione della contaminazione da AFB1 nei mangimi impiegati nell’alimentazione delle razze da latte. Vengono elencate una serie di corrette pratiche di lavorazione, a partire dalla produzione in campo/raccolta, per poi passare allo stoccaggio e il trasporto della materia prima e alla produzione finale dei mangimi. Questo documento risulta molto importante in quanto sintetizza e semplifica le strategie più efficaci per contrastare la contaminazione (Brusa et al. Alimenta, Commentario Tecnico- Giuridico della Produzione 2016).

Per quanto riguarda le attività in campo, alcuni punti critici su cui soffermarsi sono, per esempio, preparare il letto di semina per il nuovo raccolto distruggendo o eliminando i residui delle colture sensibili all’aflatossina. Utilizzare le analisi del terreno per avere le informazioni sull’applicazione dei fertilizzanti e il raggiungimento di un corretto pH del terreno, evitando così stress alla pianta. Altre buone pratiche da considerare, oltre a un’irrigazione uniforme, sono l’utilizzo di sementi resistenti all’Aspergillus flavus e la riduzione al minimo sia dei danni da insetti, sia il sovraffollamento delle piante e i danni meccanici durante la coltivazione. Per quanto riguarda la raccolta, le colture vanno raccolte a piena maturazione o in anticipo se le condizioni di piogge o siccità non lo permettono, evitando sempre i danni meccanici. Durante la conservazione, bisogna assicurarsi che le strutture di stoccaggio, i contenitori e sacchi siano puliti (FAO/WHO, 2012).

Dato che le specie fungine che producono aflatossine sono presenti in aree del mondo con climi caldi e umidi, la conservazione dovrà tenere in considerazione i seguenti aspetti. Le aflatossine non riescono a crescere con parametri indicativi di umidità relativa inferiore al 70% e di temperature inferiori ai 10 °C (PRIMO PIANO, 2013).

Metodi di decontaminazione e detossificazione*

Per decontaminazione si intende l’allontanamento delle particelle contaminate da aflatossine, mentre per detossificazione la distruzione o l’inattivazione delle micotossine. Non devono generare o lasciare residui, metaboliti, sottoprodotti tossici, cancerogeni o mutageni e devono mantenere i valori nutritivi e l’appetibilità del prodotto. Oltre a questi requisiti, si aggiunge anche la capacità di non alterare significativamente le caratteristiche tecnologiche. Tenere in considerazione se questi trattamenti siano convenienti dal punto di vista economico e tecnologico, senza richiedere tempi troppo lunghi di applicazione, e abbiano un basso impatto ambientale (Bailoni et al. Atti del Convegno: Aflatossine nel Mais. Dall’Emergenza alla Prevenzione 2013).

Metodi di decontaminazione utilizzati su alimenti zootecnici.

Dal momento che le temperature di decomposizione delle aflatossine sono 237-306 °C, si capisce che risulta difficile la gestione della contaminazione con tecnologie tradizionali di lavorazione alimentare. Per quanto riguarda il trattamento termico, la tostatura porta ad una parziale decontaminazione soprattutto nel mais. Nei mangimi è risultata una riduzione della contaminazione del 20% con trattamento termico di 100 °C per 30 min (Bailoni et al. Atti del Convegno: Aflatossine nel Mais. Dall’Emergenza alla Prevenzione 2013).

L’uso di radiazioni non ionizzanti durante l’essiccazione a microonde degli alimenti è risultato più efficace rispetto a un riscaldamento tradizionale in quanto avviene una riduzione dal 25 al 90% del tempo di essiccazione. In ogni caso, questo trattamento presenta degli svantaggi come un riscaldamento non uniforme, una limitata penetrazione delle radiazioni e il possibile danno sul prodotto dovuto alla difficoltà di controllare la temperatura finale (Pankaj et al. Trends Food Sci.Technol. 2018).

Per quanto riguarda l’utilizzo di radiazioni ionizzanti,

le radiazioni gamma a 10 kW hanno determinato l’eliminazione totale di AFB1 e AFB2 nel mais. L’ozono, invece, potrebbe risultare molto utile data la sua attività fortemente ossidante. L’azione dell’ozono sulle aflatossine è risultata promettente. Sul mais ha ottenuto una riduzione di AFB1 fino all’88%, sul grano e una riduzione di AFB1 fino al 97%. Tuttavia, l’applicazione dell’ozono è limitata nei prodotti alimentari data la sua azione di degradazione delle proprietà nutrizionali del prodotto. Inoltre, non sono ancora chiare le condizioni di sicurezza (Pankaj et al. Trends Food Sci.Technol. 2018). I trattamenti con ammoniaca, autorizzata della FDA, provocano una degradazione delle aflatossine superiore al 95%.

Tuttavia, la pratica più diffusa per contenere la contaminazione da ingestione di micotossine in allevamento è aggiungere ai mangimi degli agenti sequestranti che eliminano o riducono l’assorbimento, gli alluminosilicati (argille), carbone attivo, pareti di lievito, fibre micronizzate, batteri e altri polimeri, sebbene quelli più diffusi siano le argille e le pareti di lievito (Bailoni et al. Atti del Convegno: Aflatossine nel Mais. Dall’Emergenza alla Prevenzione 2013).

Uno studio condotto dall’EFSA nel 2019 fornisce un parere sull’utilizzo di alghe miscelata a bentonite come adsorbente di AFB1 nei mangimi per tutte le specie animali. L’uso di questo additivo ha ridotto l’AFM1 nel latte ma l’effetto non era coerente nel tempo e le prove insufficienti per trarre conclusioni sull’efficacia della bentonite (Bampidis et al. EFSA J. 2019).

Metodi di decontaminazione applicati nel latte

Un metodo di trattamento fisico utilizzato sul latte contaminato da AFM1 è la luce UV che ha visto la riduzione della concentrazione di AFM1 fino all’89.1% in presenza dello 0.05% di perossido (Bailoni et al. Atti del Convegno― Aflatossine nel Mais. Dall’Emergenza alla Prevenzione 2013). I metodi fisici e chimici però non sono fra i metodi più appropriati in fatto di sicurezza, costi e qualità del prodotto in quanto non eliminano completamente la tossina e determinano perdite nutrizionali ed organolettiche nei prodotti.

Ecco perché i metodi biologici risultano migliori sia per la salvaguardia dell’ambiente che per la salute

Purtroppo, sono stati condotti pochi studi sulla decontaminanzione di AFM1 nei prodotti lattiero-caseari e sono necessarie ulteriori verifiche a livello industriale. Questi metodi vedono l’utilizzo di lieviti, muffe e batteri e sono meno costosi e più efficienti. In campo alimentare vengono utilizzati batteri lattici (LAB) e il lievito Saccharomyces cerevisiae (Gonçalves et al. Food Sci. Technol. 2020). In uno studio è stato dimostrato come i batteri lattici nativi del latte siano in grado di rimuovere parte di AFM1 (Kuharić et al. Arh. Hig. Rada Toksiko. 2018).

La specie predominante nel latte vaccino è il Lactobacillus plantarum (51.9 %). La refrigerazione del latte a 4 °C con L. plantarum KM trattato termicamente, con successiva centrifugazione e filtrazione, ha permesso oltre il 95,7% della rimozione di AFM1 dal latte contaminato. Questa è una procedura che non richiede grandi competenze e attrezzature, quindi può trovare ampia applicazione. Sono stati valutati tre ceppi di batteri lattici (Lactobacillus helveticus, Lactobacillus plantarum, Lactococcus lactis), un ceppo di Saccharomyces cerevisiae e una miscela di entrambi attraverso i quali è stata ottenuta una riduzione del 100% di AFM1 (Ismail et al. Food Control 2017).

La tipologia di microrganismo ha influito sulla capacità di legarsi all’aflatossina,

con una tendenza di legame con AFM1 nel seguente ordine: S. cerevisiae > pool di microrganismi, Lactobacillus helveticus >Lactobacillus plantarum >Lactococcus lactis (Gonçalves et al. Food Sci. Technol. 2020). È stata valutata anche la capacità di legame di S. cerevisiae e un pool di batteri (Lactobacillus rhamnosus, Lactobacillus delbrueckii ssp bulgaricus e Bifidobacterium lactis) trattati termicamente a 100 °C per 60 minuti in latte UHT (Corassin et al. Food Control. 2013). Anche in questo caso si è notato che S. cerevisiae ha maggior capacità di contatto rispetto ai pool di batteri lattici. Sebbene, la capacità massima di legame venga raggiunta con S. cerevisiae assieme al pool di batteri lattici con il 100% di riduzione di AFM1 (Gonçalves et al. Food Sci. Technol. 2020).

È stato condotto uno studio su come i batteri probiotici e i lieviti possano detossificare il latte da AFM1. Una combinazione di LAB e lieviti potrebbe essere molto efficace utilizzandoli come additivi alimentari per ridurre la biodisponibilità nei prodotti lattiero caseari. La combinazione di ceppi probiotici come Lactobacillus plantarum, Lactobacillus acidophilus e Bifidobacterium bifidum e lieviti come Kluyveromyces lactis e Saccharomyces cerevisiae hanno ottenuto una rimozione di AFM1 fino al 90.9% nel campione di latte (Abdelmotilib et al. Eur. J. Nutr. Food Saf. 2018).

Una filiera eco-sostenibile

Al di là dei metodi che permettono l’eliminazione o la riduzione delle aflatossine nel latte e nei suoi derivati, le condizioni pedoclimatiche e la gestione degli allevamenti che ne prevengono la formazione sono certamente requisiti preferenziali.

Un caso molto significativo è quello della Brazzale, la più antica azienda lattiero-casearia italiana, che ha creato una innovativa filiera agroalimentare in Moravia, regione agricola della Repubblica Ceca tra Vienna e Praga a basso rischio di contaminazione da aflatossine (Figura 1). La grande disponibilità di terreni (80mila ha, quasi 5 ha per capo) permette un’alimentazione delle vacche da latte con foraggi provenienti dal fondo aziendale, con concimazione di nitrati notevolmente ridotta rispetto ai limiti comunitari.

La piovosità naturale e le temperature miti della regione permettono di evitare l’irrigazione artificiale e la contaminazione dei foraggi dovuta agli stress climatici. Nel disciplinare di questa filiera, i valori massimi di aflatossine sono stati fissati sul latte alla stalla in misura dieci volte più restrittiva di quelli vigenti in Italia (0.005 ppb contro 0.05 ppb, e le soglie di attenzione sui formaggi di venti volte (0.025 ppb contro 0.5 ppb). Secondo quanto dichiarato dall’azienda, nessun campione supera questi limiti e le numerose analisi di routine certificano la totale assenza di tracce.

Le qualità della filiera si riflettono sulle caratteristiche del prodotto finito di punta, il Gran Moravia, formaggio a lunga stagionatura da grattugia o da tavola, nel quale sono assenti contaminazioni da aflatossine.

 

 

 

 Saverio Santi

(Dipartimento di Scienze Chimiche dell’Università di Padova)

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