di Rocco Costanzo
Natale è quel giorno, anzi, quel periodo quando, a parte che si appare tutti più buoni, si mangiano cose buonissime, anche se in alcuni casi solo apparenti.
Ricordo benissimo cosa mi raccontava mia nonna e qualche prozia. Non esisteva Natale se non per la messa per la nascita del bambin Gesù. Non c’erano pranzi e cene sontuose, non c’erano i panni verdi per farsi una partita a poker, al massimo esistevano le carte, tipiche ad ogni regione, ci poteva essere la tombola con i fagioli per coprire i numeri.
Oggi non si bada alle spese per il cibo da portare a tavola. È solo dalla fine della Seconda Guerra Mondiale che abbiamo iniziato a mangiare cose nuove e in grande varietà. Insomma, è meglio non ricordare le date di nascita delle nostre ricette perché la verità ci farebbe sprofondare in una realtà triste. Molti dei nostri connazionali hanno conosciuto e sviluppato in America alcune delle più famose iconiche ricette della nostra blasonata non millenaria cucina, e dobbiamo ringraziare il ritorno di tanti emigranti che hanno portato con loro nuovi piatti e nuovi gusti. I miliardi di dollari del Piano Marshall consentirono a questo paese di mangiare e di investire in ricerca, innovazione e tecnologia.
Infatti è di quegli anni la nascita della Nutella, prodotto industriale, o del Panettone, grazie all’invenzione del pirottino da parte di Motta. Prima di allora esisteva solo il panettone basso o alto, ma senza pirottino. A prova di questo basta guardare il viaggio di Mario Soldati, quando va nella famosa pasticceria di Milano e lo fa conoscere al pubblico televisivo. Attenzione, il televisore non c’era in ogni casa, al massimo due in un paese: uno dal Prete e uno dal ricco. Quel panettone non ha nulla a che vedere né con il Pan del Toni, né con quelli artigianali o finti artigianali che costano una fortuna perché, come i grandi capi delle case della moda, sono firmati.
Siamo arrivati ai dolci e qui è l’unico vero caso dove abbiamo dei grandi primati.
Ma raccontiamo la verità, ricordiamo cosa era la fame. Figuriamoci se il popolo aveva farina, uova e burro e soprattutto zucchero e aromi per fare torte e dolci. Però questa è un’eccezione che è successa e accaduta, sempre per colpa della fame. Siamo nel XIII secolo e la fame nelle famiglie è l’amico più stretto. Ma iniziano le costruzioni di tantissimi conventi, dove spesso vedevi le figlie dei nobili, che per espiare le proprie colpe obbligano le loro figliole a diventare suore, spesso anche di clausura, pensando di essere così perdonati dai loro grandi peccati. Guai a chiamarli sacrifici umani, perché non vi era spargimento di sangue. Ma richiudere una figlia contro la sua volontà in un convento di clausura non è un sacrificio? Per me sì. I poveri invece portavano le loro figlie per salvarle, per dar loro un’istruzione e soprattutto per non vederle morire di fame.
Prima di diventare suore c’era il periodo del noviziato. Il numero delle ragazze cresceva a dismisura. Un bel giorno ad una madre superiora del monastero di Santa Caterina d’Alessandria di Palermo viene il guizzo di far preparare da loro dei dolcetti che alla fine della messa le nobili famiglie potevano comprare e portare nelle loro belle tavole. È così che nasce la pasticceria, quindi questo lo possiamo definire un vero primato italiano.
Certo, da lì tante cose sono cambiate in meglio. Oggi quel convento non esiste più ed è diventata una pasticceria che propone tutti i dolci che si producevano in tutti i conventi della città, un vero recupero di un pezzo importante di storia del nostro paese. Noi raccontiamo le nostre ricette, custodite nei monasteri sparsi per tutto il paese, e allo stesso tempo raccontiamo che in Italia si mangiavano cose fantastiche quando invece era esattamente il contrario. Di certo, il popolo assisteva alle grandi mangiate dei signori che per le feste delle nozze dei loro rampolli utilizzavano le piazze per mostrare attraverso il cibo la loro potenza. Basta leggere “Lì quattro banchetti” di Carlo Nascia o il trattato di Cristoforo Messisbugo.
Ora dopo aver fatto un po’ di chiarezza alla nostra fame e da dove veniamo parliamo del Natale di oggi
Lo sfarzo lo racconta ormai la TV, visitando mercati e pasticcerie, e i dati sulla spesa sono da capogiro. Spesso capita che di italiano a tavola c’è tanto ma i nomi delle cose che mangiamo sono degli altri. L’immancabile insalata russa, salmone affumicato, caviale e uova di pesce in genere, Prosecco ma anche Champagne, Foie Gras, bignè, canapè, insomma, non c’è regione europea che non ha un posto sulle nostre tavole. Questo per ricordarci che a volte l’identità è nostra e le origini sono di qualcun altro. Poi è meglio che le radici le lasciamo alle piante e noi ci teniamo le gambe per muoverci e viaggiare perché attraverso la conoscenza siamo ciò che siamo.
Proviamo a fare un menù attingendo alle nostre bellissime regioni
Prima di iniziare ricordiamoci che gli antipasti non esistevano e che sono una introduzione che ci è arrivata dalla Francia, e questo ce lo ricorda anche Artusi. Io inizierei con gli Sciatt Valtellinesi, oppure con delle acciughe al bagnetto Piemontese, un buon Cappon Magro Genovese, olive condite del Belice oppure la caponata siciliana, un buon baccalà mantecato alla Vicentina, Olive ascolane, Supplì Romani, Sarde a beccafico alla Palermitana o Parmigiana Napoletana.
Poi un gran bel tagliere di formaggi. E qui abbiamo solo l’imbarazzo della scelta tra le diverse regioni: Grana Padano, Parmigiano Reggiano, Gorgonzola, Asiago, Primo sale, Caciocavalli, Taleggio, Provolone, Mozzarella di Bufala Campana, la Stracciata Molisana, Pecorino toscano, romano o sardo, Fontina o Bitto, oppure il mitico Tatie. Non da meno la scelta di salumi: salame di Strolghino, salame felino, salame Fellata dei Nebrodi, salame di Sant’Olcese, salame Milano, speck dell’Alto Adige, guanciale di Norcia, crudo di Parma, San Daniele, Coppa Piacentina, Finocchiona, Sopressa Veneta, Nduja calabrese, Mortadella di Bologna, Culaccia e Culatello o lardo di colonnata.
Passiamo ai Primi: Passatelli asciutti, Maccheroni alla Norma, anelletti al forno alla Palermitana o Trofie al Pesto, Risotto alla Milanese, Pasta al forno, Spaghetti alle Vongole, Tortellini in brodo, Tajarin al tartufo, Casoncelli burro e salvia.
E poi i piatti forti: Falsomagro alla Palermitana, Cappone ripieno alla Napoletana, Brasato al Barolo, Asado alla ligure, Capretto alla Marchigiana o Agnello al Forno alla Pugliese. Ora qui arriva la parte più difficile perché se per le pietanze è dura, per i dolci è difficilissima se non impossibile, ma perdonatemi se non trovate anche qui il vostro dolce preferito. Io, prima di tutto, non posso non mangiare il Panettone Milanese artigianale. Prima lo mangio così com’è, poi passato alla piastra e inzuppato nel caffè con sopra una buona crema del tiramisù.
Non può mancare il Cannolo e la Cassata di Salvatore Gulì. (A proposito, gli arabi con la cassata non c’entrano nulla, del cannolo, invece, ne sono protagonisti). Poi una Pastiera la mangerei volentieri e non può mancare una buona fetta di Pandoro. Il tutto annaffiato con un po’ di Passito di Pantelleria o un Brachetto, uno Sciacchetrà delle Cinque Terre, o perché no, un bel Recioto di Soave o un Torcolato di Breganze.
Vogliamo non bere un buon caffè con le nostre mitiche caffettiere? Che sia la classica Bialetti o la napoletana, ma rigorosamente dalla caffettiera, con un buon cantuccio toscano o un biscotto alla mandorla. E per finire un buon amaro centerbe. E ora è tempo di dormire per ricominciare il giorno dopo.
Il Natale ci rallenta, sono poco più di 15 giorni che ci ricordano che dobbiamo essere più buoni, pensare agli ultimi e sorvolare su divisioni in fondo inesistenti. Allora ne approfittiamo per ricordarci che dietro tutta questa abbondanza nostra non c’è l’abbondanza del nostro vicino e soprattutto dei nostri antenati, che grazie ai loro sacrifici ci hanno donato questa, spesso sprecata, abbondanza di oggi. Torniamo a dare valore alle cose, anche per quel valore che è il Natale.
Buon Natale a tutti! Mangiate e bevete di gusto, siate buoni in abbondanza e siate Natale ogni giorno della vostra vita.